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La creatività non è un lusso per pochi, ma una funzione essenziale della specie.

Ci si lascia facilmente convincere da un’idea che abita silenziosamente il nostro modo di pensare: che la creatività sia un dono concesso a pochi, una dote marginale, un’attività secondaria rispetto alle “cose importanti” della vita. 

Creatività come lusso, concessione, decorazione.

Ma si può a guardare più a fondo, nel tempo della storia umana, nelle viscere della nostra esperienza quotidiana, e in questa osservazione ci accorgiamo che è vero il contrario: creare è una necessità antropologica. Non è possibile vivere senza esprimersi.
E non si può restare umani senza dare forma a ciò che si prova.

Ma che cosa ci rende davvero umani?
Forse non l’intelligenza, né la tecnica. Gli animali ragionano, si adattano, costruiscono.
Forse neppure il linguaggio, se intendiamo con esso la capacità di comunicare intenzioni o segnali.
Ciò che ci distingue radicalmente è qualcos’altro: il bisogno di esprimere l’invisibile.

Non solo comunicare, ma trasformare il vissuto in forma.

La parola esprimere, “spingere fuori, far uscire”, rivela un gesto fondamentale: dare forma esterna a ciò che è interno. È un atto che sta a metà tra il biologico e il simbolico, come il respiro, come il pianto, come il sogno. Esprimere non è un’attività secondaria dell’umano, ma una sua necessità strutturale perché permette di dare un volto al sentire e di riconoscersi.

Potremmo dire che l’essere umano è un animale che non può sopportare a lungo di vivere senza segni.

Dalla parola alla pittura, dal canto al ricamo, dalla danza al racconto, ogni gesto che dà forma a un’emozione, a un’intuizione, a un desiderio, non è un “ornamento culturale”,  è espressività vitale.
E non importa che il gesto sia raffinato o grezzo, riconosciuto o solitario: ciò che conta è che sia autentico, incarnato, abitato dal bisogno di significare.

In questo senso, la creazione non nasce dall’estetica, ma dalla vita.

Come scrive Ellen Dissanayake, pioniera del pensiero bio-estetico, l’arte, nelle sue forme originarie, non nasce per essere osservata, ma per essere agita. Nel suo libro Homo Aestheticus, sostiene che tutte le culture umane, fin dalle origini, hanno sviluppato pratiche simboliche per rendere “speciale” l’ordinario: cibo preparato con cura, corpi dipinti, oggetti rituali, narrazioni orali, suoni ritmici. Queste pratiche non avevano lo scopo di decorare la realtà, ma di organizzarla, relazionarla, trascenderla e la creatività non era mai un ambito distinto dalla vita, era la vita stessa, vissuta con intensità e attenzione. In quest’ottica, l’arte è ciò che rende speciale. Quindi, non qualcosa di aggiunto, ma qualcosa di profondamente necessario all’umano. Questa necessità è duplice: da un lato, per costruire senso, cioè, dare una forma simbolica all’esperienza per poterla comprendere, attraversare, integrare. Dall’altro, per condividere l’interiorità, renderla visibile, comunicabile, abitabile anche per l’altro individuo.

Esprimersi è dunque sia un gesto auto-riflessivo (per sapere chi siamo), sia un gesto relazionale (per farsi comprendere). 

E ogni atto espressivo è anche un atto di esistenza.
Quando si canta soli in una stanza, quando si ricama il dolore in un tessuto, quando si modella con le mani l’argilla o si scrive qualcosa, si sta affermando il proprio essere nel mondo.

Si dice: “io sento”, “io sono”, “io trasformo”.

L’espressività è, quindi, una via per abitare l’umano nella sua complessità, un ponte tra interno ed esterno, tra passato e presente, tra solitudine e comunità. È un modo per sopravvivere al caos, per tenere insieme ciò che altrimenti si disgregherebbe.

Ecco perché, quando non ci è concesso di esprimere ciò che siamo, per paura, per giudizio, per mancanza di spazi o linguaggi, qualcosa in noi si contrae. Lì sta la malattia, dice Umberto Galimberti; non siamo più “presso di noi”.

La vitalità si affievolisce.
La mente si disabitua al simbolo.
E l’anima si fa muta.

Riscoprire l’espressività come bisogno originario, quindi, non come privilegio estetico ma come necessità umana, è uno dei compiti più urgenti che dovremmo avere. Non per diventare artiste/i nel senso accademico, ma per tornare abitanti del gesto. E creatrici/creatori di forme che sappiano dirci e ricordare chi siamo quando tutto sembra perdersi.

Per comprendere davvero che cos’è la creatività, bisogna fare un passo indietro. Si tratta di un passo ampio che ci riporta non all’inizio dell’arte, ma prima ancora che l’arte esistesse come categoria.

Immaginiamo un tempo in cui l’essere umano non conosceva il concetto di “estetico”, non distingueva tra utile e bello, tra oggetto e simbolo, un tempo in cui la vita stessa era immersa nel simbolico.
In quel tempo, le mani dell’essere umano incidevano linee su ossa animali, tracciavano figure nelle pareti delle grotte, battevano ritmi ripetitivi sul proprio corpo o sulle pietre. Si danzava intorno al fuoco, si cantava in coro nei momenti di passaggio. Ogni gesto era carico di senso e ogni forma era necessaria.

Non si trattava di mere “decorazioni” della realtà, ma di una vera negoziazione con l’invisibile. Ogni figura tracciata, ogni suono ripetuto, era un ponte tra il noto e l’ignoto, tra il visibile e l’invisibile, tra il mondo umano e le potenze che lo circondavano. 

Quando il cacciatore preistorico disegnava un bisonte sulle pareti della grotta, non stava facendo arte come oggi la intendiamo ma stava creando un legame. Stava evocando, implorando, celebrando, forse tentando di comprendere o placare ciò che lo minacciava e lo nutriva. Si metteva in comunicazione con la paura, trasformava l’angoscia in gesto, il desiderio in segno e quel disegno non era solo immagine: era preghiera, corpo, memoria, relazione.

Come ci dice James Hillman, l’anima umana è strutturalmente simbolica. Non vive di concetti astratti, ma di immagini interiori, di narrazioni implicite, di forme che incarnano emozioni e memorie.

L’anima ha bisogno di immagini come il corpo ha bisogno di cibo.

Ma è importante precisare che per Hillman, l’immagine non è una fotografia mentale, né un contenuto da decifrare. È una forma vivente, un linguaggio archetipico. L’anima si muove per immagini, sogni, gesti, figure e ha bisogno che queste immagini trovino forma nel mondo, che vengano dette, scritte, disegnate, scolpite, danzate, ricamate, cantate. È per questo che ogni cultura che ha reciso i suoi legami con il simbolico, con il mitico, con il rituale, ha prodotto sofferenza: perché ha negato all’anima il suo modo di esistere. La musica primitiva nasce dal ritmo stesso della vita: il battito del cuore, il respiro, il passo. Non c’è separazione tra suono e corpo, tra corpo ed emozione, tra emozione e rito. Il canto, per esempio, non era spettacolo, ma interiorità ed emotività condivise; come la danza non era coreografia, ma risposta incarnata al mistero dell’essere. Suonare, vibrare, battere, ripetere: erano gesti per dire qualcosa che non poteva essere detto in altro modo.

Ecco che creare, allora, non era un gesto opzionale, era una funzione vitale. Cioè, un modo per non soccombere a ciò che non poteva essere compreso o detto, per non restare schiacciati dalla paura, dalla perdita, dall’ignoto. E, infatti, ogni volta che la possibilità di esprimersi viene negata, per repressione culturale o, per assenza di linguaggi interiori, il corpo e la mente soffrono. Noi ci ammaliamo quando non possiamo dare forma, cioè quando l’esperienza resta muta, quando il sentire non diventa segno. In molte tradizioni antiche, la guarigione dell’essere umano non era un processo clinico, ma una restituzione simbolica: il racconto del sogno, la pittura del dolore, il canto collettivo, il gesto danzato.

Ogni volta che creiamo, anche senza sapere come, anche senza tecnica, stiamo ritornando a casa, presso di noi, cioè, ci stiamo riconnettendo a quel tempo antico in cui creare non era un’attività ma una condizione dell’essere.

L’espressione non è soltanto un atto antropologico o culturale. È, prima ancora, una funzione psichica primaria, una necessità interiore che riguarda la sopravvivenza dell’identità emotiva. Ogni vissuto umano, infatti, porta con sé un carico di intensità, desideri, paure, lutti, immagini, che, se non trova una via per essere espresso rischia di diventare insostenibile. Non a caso, molte delle sofferenze psichiche contemporanee sono legate non a “ciò che è accaduto”, ma a ciò che non ha potuto essere detto, trasformato, rappresentato. L’individuo, in questi casi, non vive davvero le sue emozioni, ma le subisce come eventi esterni; ecco perché ogni espressione, verbale, simbolica, corporea, artistica, è anche un modo per “digerire” il vissuto e renderlo umano e comunicabile.

Riprendendo James Hillman, troviamo una spiegazione di questo tipo: l’anima vive di immaginazione, e la sua salute dipende dalla capacità di coltivare immagini interiori che possano essere espresse nel mondo. Per Hillman, l’anima non è un’entità metafisica ma è una modalità di guardare e sentire la vita e l’immaginazione è il suo linguaggio naturale.

Senza espressione, l’esperienza resta informe e l’informe, se non trova forma, può diventare angoscia, apatia, disintegrazione.

Per questo la creatività non è una fuga, ma una forma di resistenza alla frammentazione e creare non è evadere dalla realtà, ma reinventarla per poterla sostenere. Non c’è bisogno di grandi opere, di palcoscenici, di musei: una poesia scritta di getto, un collage fatto di ritagli, un ricamo lento su un tessuto dimenticato, un diario illustrato, sono tutti gesti di sopravvivenza simbolica.

Ecco perché, in tempi di trauma collettivo o personale, la creatività torna sempre come risorsa; perché è l’ultima voce dell’umano che resiste alla spersonalizzazione, all’assurdo, alla frantumazione del senso.

Abbiamo visto che l’espressione è ciò che salva la psiche dalla frammentazione; la filosofia della cultura ci mostra che è anche ciò che rende il mondo abitabile.

Il filosofo tedesco Ernst Cassirer ha dedicato la maggior parte della sua opera a esplorare l’idea che l’essere umano non sia definito tanto dalla razionalità, quanto dalla sua capacità simbolica. Cassirer sviluppa un’intuizione rivoluzionaria: l’uomo è un animal symbolicum, un essere che crea e abita mondi di significato. Per Cassirer, tutte le grandi creazioni dell’umanità, il linguaggio, il mito, l’arte, la religione, la scienza, non sono accessori culturali o orpelli decorativi ma sono forme fondamentali della coscienza, modalità strutturali attraverso cui interpretiamo l’esperienza e ci orientiamo nella realtà. Non esiste, per l’essere umano, una realtà “neutra” perché esiste solo una realtà simbolicamente mediata. Vediamo ciò che possiamo nominare, percepiamo ciò che possiamo raffigurare, comprendiamo ciò che possiamo narrare.

In altre parole, non abitiamo il mondo direttamente ma abitiamo forme di significato che plasmano il mondo per noi.

In quest’ottica, esprimersi non è un’attività decorativa: è un atto ontologico, che fonda l’esistenza di “qualcosa”. Quando “creiamo” qualcosa stiamo creando senso e stiamo organizzando il caos. Cioè, stiamo offrendo all’anima un luogo abitabile in cui l’esperienza, anziché restare muta e opprimente, può essere trasformata, narrata, integrata.

Questo è il cuore della forza simbolica dell’espressione: trasformare ciò che accade in ciò che può essere raccontato. 

In questo senso, ogni gesto creativo, anche umile e privato, ha qualcosa di sacro perché ritorniamo ad essere soggetti attivi della nostra esperienza,  ritroviamo una voce, una prospettiva, una narrazione. E così possiamo iniziare a non subire la vita, a partecipare con un linguaggio nostro. Ed ecco che nella società contemporanea, in cui le narrazioni vengono spesso imposte, prefabbricate, standardizzate, creare è anche un atto di libertà. Esprimersi non dovrebbe essere un privilegio riservato a chi si ritiene artista ma un diritto umano insostituibile; è un modo di essere al mondo e una modalità di relazione, di cura, di sopravvivenza.

Non serve essere artiste/i, serve essere vive/i, e vivere, per l’essere umano, significa creare, dare formacostruire significato là dove prima c’era solo materia grezza.

Oggi, in un’epoca ipertecnologica e iperproduttiva, questo legame originario tra espressione e sopravvivenza rischia di rompersi. Anche perché viviamo immersi in una cultura che valuta ogni gesto in base alla sua utilità, alla sua performance, alla sua capacità di essere venduto. La creatività, se non è “redditizia”, viene ridotta a hobby e gran parte dell’espressività, se non è tecnicamente raffinata, viene zittita.

Questo clima genera una forma insidiosa di autocensura espressiva.

Non osiamo più creare se non ci sentiamo all’altezza.
Non danziamo se non sappiamo farlo bene.
Non scriviamo se non pensiamo di poter pubblicare.
Non creiamo se non siamo sicuri di piacere.

Che gran tradimento all’umano!

Come ci ricorda Dissanayake, la funzione espressiva non nasce per essere valutata ma dovrebbe emergere per connetterci, per guarirci e  per dare senso. E se perdiamo il senso espressivo della nostra vita, siamo magari sì funzionanti ma diventiamo disabitati, cioè efficienti ma vuoti; produttivi ma muti.

È tempo di riprenderci la voce e di ritrovare il gesto per riconoscere che creare non è un’aggiunta alla vita, ma il modo stesso di viverla pienamente.

Si può tornare alla sorgente: ogni atto creativo autentico è un ritorno. Non all’indietro, ma in profondità.

Esprimersi è vivere. Creare è vivere.

E vivere, pienamente, è sempre un atto creativo.

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Essere significa essere delimitati.”

Nel nostro immaginario, la parola “confine” ci porta immediatamente ad una linea netta, tracciata per dividere: tra una nazione e un’altra, tra un dentro e un fuori, tra un io e un tu. 

Il confine sembra allora appartenere al dominio della geografia, della politica, dell’identità rigida. Ma questa visione è solo una parte del suo significato, forse la meno feconda. Ancora prima di essere una linea tracciata nello spazio il confine è una configurazione interna dell’esperienza, un principio archetipico che modella il nostro modo di abitare il mondo e di abitare noi stesse/i.

In termini archetipici, il confine non è solo ciò che delimita, ma ciò che rende possibile la forma. Senza confine non c’è figura, senza margine non c’è immagine, senza soglia non esiste passaggio. Il confine è ciò che permette al molteplice di organizzarsi in senso, al caos di generare ordine, alla possibilità di farsi concretezza. È, potremmo dire, la grammatica dell’essere.

In questo senso, ogni essere umano è strutturalmente un essere di confine.
Viviamo costantemente “tra”: tra corpo e parola, tra istinto e cultura, tra solitudine e appartenenza, tra desiderio e responsabilità. Il confine non è, allora, un’immobilità imposta, ma un luogo di tensione vitale, una zona attraversata da domande. 

Dove finisco io? Dove inizia l’altra/o? Cosa posso lasciar entrare? Cosa è necessario trattenere?

Pensatori come Merleau-Ponty hanno sottolineato come la nostra percezione del mondo sia sempre incarnata, situata, attraversata da confini mobili. Non siamo mai interamente dentro né completamente fuori: siamo corpi-soglia, esposti, sensibili, aperti.
Il confine è dunque ciò che ci fa da pelle psichica: ci contiene, ma non ci chiude. È permeabile, reattivo, trasformabile. E questa sua natura porosa è ciò che permette l’incontro, la relazione, la contaminazione.

Un confine è una promessa, non una minaccia, potremmo dire.
Una promessa di trasformazione, perché ogni volta che tocchiamo un limite autentico, si apre anche un varco di possibilità.

Per questo motivo, il confine è anche uno dei luoghi più potenti della nostra creatività. Non si crea nel vuoto assoluto, né in un territorio già completamente noto. Si crea sulla soglia: là dove l’identità si incrina, dove la certezza vacilla, dove una ferita può diventare feritoia.

La psicanalista e filosofa femminista Luce Irigaray ci avverte che l’identità si costituisce solo nello spazio della differenza, solo quando viene sfidata dalla presenza dell’altro individuo. Ma perché questo avvenga, è necessario che il soggetto riconosca e onori i propri confini, senza arroccarsi in essi.

Il confine non è negazione dell’altro, ma possibilità di relazione.

In altre parole: se il confine viene vissuto come una muraglia, blocca; se viene vissuto come una soglia, genera. In quel passaggio fragile tra stabilità e apertura, tra radicamento e rischio, si manifesta la tensione più profonda dell’umano.
Ed è proprio in quella tensione che la creatività trova la sua origine.

Creare, infatti, è spesso un modo per esplorare le nostre soglie interiori. Per avvicinarci, senza invadere. Per espanderci, senza dissolverci. Per superare ciò che pensavamo definitivo, riconoscendo che ogni forma può essere riaperta, riformulata, rinegoziata.

Scopriamo lo spazio della trasformazione quando impariamo ad abitare i nostri confini, senza rinnegarli né sacralizzarli.
La creatività non è un’illuminazione improvvisa, né una forma di evasione estemporanea: è una pratica di confine, un esercizio profondo di attraversamento consapevole.

Spesso gli esseri umani hanno elaborato pratiche simboliche per marcare i momenti di passaggio: dalla nascita alla pubertà, dal nubilato/celibato al matrimonio, dalla vita alla morte. Questi passaggi non sono considerati solo eventi biologici o sociali, ma vere e proprie trasformazioni ontologiche, passaggi d’essere, che richiedono riti e simboli per essere attraversati in modo significativo.

Nel testo Les rites de passage l’antropologo Arnold Van Gennep  ha inserito queste pratiche in una struttura tripartita: séparation, marge (liminalité), agrégation, cioè separazione, liminalità, reintegrazione. 

L’idea è che in ogni passaggio rilevante della vita, il soggetto viene prima separato dallo stato precedente, poi attraversa una fase liminale (di sospensione, ambiguità, disordine) e alla fine viene reintegrato in una nuova forma, con una nuova identità e un nuovo status.

Quella liminale è sicuramente la fase più incerta e complessa ma, allo stesso tempo, più feconda. Come approfondirà successivamente Victor Turner, la liminalità è una soglia esistenziale, uno stato intermedio in cui i vecchi riferimenti vengono sospesi e le nuove configurazioni non sono ancora stabilite. In quel momento, l’identità si disgrega: il soggetto non è né “qui”“là”, né in “questo” né in “quello”, si trova in uno spazio-tempo in cui le categorie si indeboliscono e l’essere è costretto a ritrovare significati.

Quando la liminalità non è vissuta in solitudine ma in gruppo, Turner parla di communitas: uno stato di fratellanza orizzontale, anti-gerarchico, in cui emergono forme di coesione profonde, proprio perché si è tutti fuori dagli ordini stabiliti. Ma anche in solitudine, la liminalità è uno stato potente, misterico, rischioso.

La liminalità è una zona di potenziale trasformazione totale.

E se trasliamo questa dinamica nel campo della creatività, la corrispondenza è sorprendente.

Ogni vero processo creativo attraversa infatti una fase liminale.
Nel momento in cui ci accingiamo a creare, un testo, un gesto, un’opera, una decisione trasformativa, lasciamo qualcosa di noto: un’identità, un ruolo, un sapere, un’abitudine. Entriamo in una zona informe, in cui non siamo più ciò che eravamo, ma non sappiamo ancora chi o cosa diventeremo. È uno stato vulnerabile, disorientante, ma anche infinitamente fertile.

La creazione, in questo senso, non è una produzione tecnica. È un rito di passaggio. Un atto iniziatico.
È un lasciar morire qualcosa in sé, l’ego, il controllo, l’idea preconfezionata, per far emergere qualcosa di nuovo, che ancora non ha nome.
Scrivere, dipingere, ricamare, modellare, disegnare: ogni gesto creativo è una sospensione del mondo ordinario, una discesa nelle profondità sconosciute, un momento in cui si lascia andare all’onniscienza per aprirsi alla metamorfosi.

Potremmo dire che il fare creativo autentico coincide con la marginalità rituale: ci pone ai margini di ciò che è già codificato, e ci espone al rischio del nuovo. Ma è proprio questo rischio a renderlo trasformativo. L’identità, in quell’atto, viene destrutturata: si apre, si incrina, si riconfigura.

Ecco perché la liminalità è centrale nel pensiero antropologico  e decisiva nell’esperienza creativa: essa non produce risultati certi, ma suscita possibilità inedite. Quella soglia è lo spazio dove l’io può diventare altro da sé, senza perdersi ma neanche rimanendo identico.

In questa logica, il confine non è il punto finale di un’identità, ma un nuovo punto di partenza, il terreno in cui si rinnova. Ogni soglia attraversata in modo consapevole e creativo è un atto di rinascita simbolica.

Ed è qui che la creatività si rivela nella sua potenza più radicale: non come abilità decorativa, non come talento individuale, ma come esperienza liminale capace di disgregare e ricostruire, di destrutturare e rigenerare.

Un viaggio iniziatico che non può essere compiuto se non si è disposti a sospendere il conosciuto e a stare, almeno per un po’, nella zona sacra della soglia.

Anche in psicologia dello sviluppo, il tema del confine è centrale fin dalla prima infanzia. Si può pensare allo spazio transizionale di cui parla Donald Winnicott: una zona intermedia tra mondo interno ed esterno, in cui il bambino può iniziare a creare e a esprimersi senza essere travolto dalla realtà o schiacciato dai desideri. Questo spazio è la culla della creatività.

E poi, la teoria dell’attaccamento di John Bowlby ci mostra come il senso di sicurezza interiore, la fiducia di poter esplorare il mondo, dipenda dalla presenza di confini chiari ma accoglienti. Il confine personale, quindi, nasce da una relazione; è il frutto di un equilibrio tra contenimento e libertà.

Ma quando il confine si irrigidisce, quando si costruisce a partire dalla paura, non dalla fiducia, può diventare una prigione invisibile. In quella prigione smettiamo di esplorare, di esprimerci, di evolverci. La creatività, in questi casi, si inaridisce: non perché non abbiamo talento, ma perché non abbiamo spazio.

Molte persone che si definiscono “bloccate” nel creare, incapaci di scrivere, danzare, inventare, giocare, non mancano di immaginazione o talento. Spesso mancano di spazio interno sicuro. La mente è diventata troppo sorvegliante o censurante, il corpo troppo contratto, l’identità controllata.

Non ci si concede più di attraversare i confini interiori.
Si teme l’errore, il giudizio, l’imperfezione.
Si smette di rischiare, e con ciò, si smette di creare.

Eppure, come ci ricorda ancora Winnicott, è proprio nello spazio intermedio, né interamente interno né completamente esterno, che possiamo “essere reali”. Questo spazio, se ben custodito, è la matrice del pensiero creativo, dell’invenzione, del linguaggio simbolico, della spiritualità.

Un confine personale sano non è mai un muro.
È una soglia abitata, una pelle viva, che sente, respira, si adatta.
Ci permette di entrare in contatto senza perdere il centro. 

La creatività ha bisogno di questo tipo di confine.
Ha bisogno di protezione, ma anche di apertura.
Ha bisogno di silenzio, ma anche di ascolto.
Ha bisogno di una struttura che sostenga, non che soffochi.

L’evoluzione personale, e potremmo dire, anche ogni percorso artistico, passa dal riconoscere i propri confini, ascoltarli, riscriverli, permettere loro di trasformarsi da prigione in spazio generativo.

Pensare il confine come apertura significa compiere un gesto potente sia sul piano personale sia su quello culturale. Significa rovesciare una narrazione pericolosa e pervasiva, quella che ci invita a blindarci, a difenderci, a diventare fortezze identitarie inespugnabili.

Perché è facile confondere l’identità con la chiusura: per sapere chi sei, ci viene detto, devi sapere chi non sei, cosa escludi, cosa tieni fuori. 

Ma questa logica binaria produce irrigidimento, separazione, polarizzazione. E, nel quotidiano, produce anche solitudine. Invece, la creatività ha una natura meticcia, imprevedibile e relazionale e ci insegna un’altra via: l’arte dell’ospitalità interiore.

Aprire i propri confini non significa smettere di essere sé stesse/i. No, significa smettere di vivere nella paura della contaminazione e iniziare a concepire l’identità non come un’essenza da preservare, ma un processo in divenire.

Forte è l’espressione di Edouard Glissant che nella sua Poetica della relazione ci definisce esseri-arcipelago, cioè costituiti da stratificazioni, influenze, memorie e passaggi.
L’io non è un monolite, ma un nodo di relazioni, un essere-in-dialogo e in questo dialogo, ogni volta che ci apriamo, non perdiamo qualcosa, ci moltiplichiamo.

Nella filosofia di Gaston Bachelard troviamo una visione poetica del confine; il suo libro La poetica dello spazio ci guida attraverso la simbologia degli ambienti intimi: la casa, l’armadio, il nido, la conchiglia. Ogni spazio abitato certo è delimitato;  ha pareti, porte, soglie, ma è proprio grazie a questi “confini” che può essere, appunto, abitato.

Una stanza senza finestre è una prigione. Un confine senza spiragli è una clausura. Ma una soglia attraversabile è un invito a trasformarsi.

Lo spazio amato è sempre uno spazio che ci lascia passare, potremmo dire con Bachelard. Non ci rinchiude, ma ci protegge nel movimento; ci contiene nell’evoluzione.

Abbiamo detto che ogni gesto creativo autentico nasce da un luogo preciso: la soglia.

Non è dal caos totale che nasce l’arte, né dal controllo assoluto. La creatività vive nell’intervallo, in quella zona fluida in cui l’ordine si allenta e il disordine non ha ancora vinto. È una condizione dell’anima in cui ci si concede di non sapere, di stare nel forse, nel non ancora.

La soglia è quella condizione feconda in cui non siamo più chi eravamo, ma non sappiamo ancora chi saremo: non sono ancora questo, ma potrei esserlo.

Il filosofo Ernst Bloch parlava del “non-ancora” come dell’orizzonte dell’umano perché è ciò che ci muove, che ci trascina oltre lo stato attuale, che ci fa sognare e ci dà la speranza del futuro.
E la creatività è proprio questo: una pratica del non-ancora, un allenamento alla possibilità e ciò che permette questo allenamento non è un’identità fissata, ma un’identità aperta alla trasformazione.

Abitare una soglia significa diventare capaci di ascolto, di sospensione, di attenzione radicale. Significa sostare, anche quando si vorrebbe fuggire.

Significa imparare a resistere al bisogno di definire tutto subito, e lasciare che qualcosa emerga.

Perché ogni trasformazione autentica accade su una soglia.
Ogni nascita, ogni decisione importante, ogni gesto creativo è un attraversamento.

E se non si crea mai davvero dal nulla, perché il nulla non esiste, allora si crea sempre da un confine: da un margine che vibra, da una crepa che si apre, da una frontiera che ci chiama.

Forse è proprio lì, su quella linea sottile tra ciò che siamo e ciò che possiamo diventare, che la vita diventa finalmente abitabile e generativa. E vera.

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