La creatività non è un lusso per pochi, ma una funzione essenziale della specie.

Ci si lascia facilmente convincere da un’idea che abita silenziosamente il nostro modo di pensare: che la creatività sia un dono concesso a pochi, una dote marginale, un’attività secondaria rispetto alle “cose importanti” della vita. 

Creatività come lusso, concessione, decorazione.

Ma si può a guardare più a fondo, nel tempo della storia umana, nelle viscere della nostra esperienza quotidiana, e in questa osservazione ci accorgiamo che è vero il contrario: creare è una necessità antropologica. Non è possibile vivere senza esprimersi.
E non si può restare umani senza dare forma a ciò che si prova.

Ma che cosa ci rende davvero umani?
Forse non l’intelligenza, né la tecnica. Gli animali ragionano, si adattano, costruiscono.
Forse neppure il linguaggio, se intendiamo con esso la capacità di comunicare intenzioni o segnali.
Ciò che ci distingue radicalmente è qualcos’altro: il bisogno di esprimere l’invisibile.

Non solo comunicare, ma trasformare il vissuto in forma.

La parola esprimere, “spingere fuori, far uscire”, rivela un gesto fondamentale: dare forma esterna a ciò che è interno. È un atto che sta a metà tra il biologico e il simbolico, come il respiro, come il pianto, come il sogno. Esprimere non è un’attività secondaria dell’umano, ma una sua necessità strutturale perché permette di dare un volto al sentire e di riconoscersi.

Potremmo dire che l’essere umano è un animale che non può sopportare a lungo di vivere senza segni.

Dalla parola alla pittura, dal canto al ricamo, dalla danza al racconto, ogni gesto che dà forma a un’emozione, a un’intuizione, a un desiderio, non è un “ornamento culturale”,  è espressività vitale.
E non importa che il gesto sia raffinato o grezzo, riconosciuto o solitario: ciò che conta è che sia autentico, incarnato, abitato dal bisogno di significare.

In questo senso, la creazione non nasce dall’estetica, ma dalla vita.

Come scrive Ellen Dissanayake, pioniera del pensiero bio-estetico, l’arte, nelle sue forme originarie, non nasce per essere osservata, ma per essere agita. Nel suo libro Homo Aestheticus, sostiene che tutte le culture umane, fin dalle origini, hanno sviluppato pratiche simboliche per rendere “speciale” l’ordinario: cibo preparato con cura, corpi dipinti, oggetti rituali, narrazioni orali, suoni ritmici. Queste pratiche non avevano lo scopo di decorare la realtà, ma di organizzarla, relazionarla, trascenderla e la creatività non era mai un ambito distinto dalla vita, era la vita stessa, vissuta con intensità e attenzione. In quest’ottica, l’arte è ciò che rende speciale. Quindi, non qualcosa di aggiunto, ma qualcosa di profondamente necessario all’umano. Questa necessità è duplice: da un lato, per costruire senso, cioè, dare una forma simbolica all’esperienza per poterla comprendere, attraversare, integrare. Dall’altro, per condividere l’interiorità, renderla visibile, comunicabile, abitabile anche per l’altro individuo.

Esprimersi è dunque sia un gesto auto-riflessivo (per sapere chi siamo), sia un gesto relazionale (per farsi comprendere). 

E ogni atto espressivo è anche un atto di esistenza.
Quando si canta soli in una stanza, quando si ricama il dolore in un tessuto, quando si modella con le mani l’argilla o si scrive qualcosa, si sta affermando il proprio essere nel mondo.

Si dice: “io sento”, “io sono”, “io trasformo”.

L’espressività è, quindi, una via per abitare l’umano nella sua complessità, un ponte tra interno ed esterno, tra passato e presente, tra solitudine e comunità. È un modo per sopravvivere al caos, per tenere insieme ciò che altrimenti si disgregherebbe.

Ecco perché, quando non ci è concesso di esprimere ciò che siamo, per paura, per giudizio, per mancanza di spazi o linguaggi, qualcosa in noi si contrae. Lì sta la malattia, dice Umberto Galimberti; non siamo più “presso di noi”.

La vitalità si affievolisce.
La mente si disabitua al simbolo.
E l’anima si fa muta.

Riscoprire l’espressività come bisogno originario, quindi, non come privilegio estetico ma come necessità umana, è uno dei compiti più urgenti che dovremmo avere. Non per diventare artiste/i nel senso accademico, ma per tornare abitanti del gesto. E creatrici/creatori di forme che sappiano dirci e ricordare chi siamo quando tutto sembra perdersi.

Per comprendere davvero che cos’è la creatività, bisogna fare un passo indietro. Si tratta di un passo ampio che ci riporta non all’inizio dell’arte, ma prima ancora che l’arte esistesse come categoria.

Immaginiamo un tempo in cui l’essere umano non conosceva il concetto di “estetico”, non distingueva tra utile e bello, tra oggetto e simbolo, un tempo in cui la vita stessa era immersa nel simbolico.
In quel tempo, le mani dell’essere umano incidevano linee su ossa animali, tracciavano figure nelle pareti delle grotte, battevano ritmi ripetitivi sul proprio corpo o sulle pietre. Si danzava intorno al fuoco, si cantava in coro nei momenti di passaggio. Ogni gesto era carico di senso e ogni forma era necessaria.

Non si trattava di mere “decorazioni” della realtà, ma di una vera negoziazione con l’invisibile. Ogni figura tracciata, ogni suono ripetuto, era un ponte tra il noto e l’ignoto, tra il visibile e l’invisibile, tra il mondo umano e le potenze che lo circondavano. 

Quando il cacciatore preistorico disegnava un bisonte sulle pareti della grotta, non stava facendo arte come oggi la intendiamo ma stava creando un legame. Stava evocando, implorando, celebrando, forse tentando di comprendere o placare ciò che lo minacciava e lo nutriva. Si metteva in comunicazione con la paura, trasformava l’angoscia in gesto, il desiderio in segno e quel disegno non era solo immagine: era preghiera, corpo, memoria, relazione.

Come ci dice James Hillman, l’anima umana è strutturalmente simbolica. Non vive di concetti astratti, ma di immagini interiori, di narrazioni implicite, di forme che incarnano emozioni e memorie.

L’anima ha bisogno di immagini come il corpo ha bisogno di cibo.

Ma è importante precisare che per Hillman, l’immagine non è una fotografia mentale, né un contenuto da decifrare. È una forma vivente, un linguaggio archetipico. L’anima si muove per immagini, sogni, gesti, figure e ha bisogno che queste immagini trovino forma nel mondo, che vengano dette, scritte, disegnate, scolpite, danzate, ricamate, cantate. È per questo che ogni cultura che ha reciso i suoi legami con il simbolico, con il mitico, con il rituale, ha prodotto sofferenza: perché ha negato all’anima il suo modo di esistere. La musica primitiva nasce dal ritmo stesso della vita: il battito del cuore, il respiro, il passo. Non c’è separazione tra suono e corpo, tra corpo ed emozione, tra emozione e rito. Il canto, per esempio, non era spettacolo, ma interiorità ed emotività condivise; come la danza non era coreografia, ma risposta incarnata al mistero dell’essere. Suonare, vibrare, battere, ripetere: erano gesti per dire qualcosa che non poteva essere detto in altro modo.

Ecco che creare, allora, non era un gesto opzionale, era una funzione vitale. Cioè, un modo per non soccombere a ciò che non poteva essere compreso o detto, per non restare schiacciati dalla paura, dalla perdita, dall’ignoto. E, infatti, ogni volta che la possibilità di esprimersi viene negata, per repressione culturale o, per assenza di linguaggi interiori, il corpo e la mente soffrono. Noi ci ammaliamo quando non possiamo dare forma, cioè quando l’esperienza resta muta, quando il sentire non diventa segno. In molte tradizioni antiche, la guarigione dell’essere umano non era un processo clinico, ma una restituzione simbolica: il racconto del sogno, la pittura del dolore, il canto collettivo, il gesto danzato.

Ogni volta che creiamo, anche senza sapere come, anche senza tecnica, stiamo ritornando a casa, presso di noi, cioè, ci stiamo riconnettendo a quel tempo antico in cui creare non era un’attività ma una condizione dell’essere.

L’espressione non è soltanto un atto antropologico o culturale. È, prima ancora, una funzione psichica primaria, una necessità interiore che riguarda la sopravvivenza dell’identità emotiva. Ogni vissuto umano, infatti, porta con sé un carico di intensità, desideri, paure, lutti, immagini, che, se non trova una via per essere espresso rischia di diventare insostenibile. Non a caso, molte delle sofferenze psichiche contemporanee sono legate non a “ciò che è accaduto”, ma a ciò che non ha potuto essere detto, trasformato, rappresentato. L’individuo, in questi casi, non vive davvero le sue emozioni, ma le subisce come eventi esterni; ecco perché ogni espressione, verbale, simbolica, corporea, artistica, è anche un modo per “digerire” il vissuto e renderlo umano e comunicabile.

Riprendendo James Hillman, troviamo una spiegazione di questo tipo: l’anima vive di immaginazione, e la sua salute dipende dalla capacità di coltivare immagini interiori che possano essere espresse nel mondo. Per Hillman, l’anima non è un’entità metafisica ma è una modalità di guardare e sentire la vita e l’immaginazione è il suo linguaggio naturale.

Senza espressione, l’esperienza resta informe e l’informe, se non trova forma, può diventare angoscia, apatia, disintegrazione.

Per questo la creatività non è una fuga, ma una forma di resistenza alla frammentazione e creare non è evadere dalla realtà, ma reinventarla per poterla sostenere. Non c’è bisogno di grandi opere, di palcoscenici, di musei: una poesia scritta di getto, un collage fatto di ritagli, un ricamo lento su un tessuto dimenticato, un diario illustrato, sono tutti gesti di sopravvivenza simbolica.

Ecco perché, in tempi di trauma collettivo o personale, la creatività torna sempre come risorsa; perché è l’ultima voce dell’umano che resiste alla spersonalizzazione, all’assurdo, alla frantumazione del senso.

Abbiamo visto che l’espressione è ciò che salva la psiche dalla frammentazione; la filosofia della cultura ci mostra che è anche ciò che rende il mondo abitabile.

Il filosofo tedesco Ernst Cassirer ha dedicato la maggior parte della sua opera a esplorare l’idea che l’essere umano non sia definito tanto dalla razionalità, quanto dalla sua capacità simbolica. Cassirer sviluppa un’intuizione rivoluzionaria: l’uomo è un animal symbolicum, un essere che crea e abita mondi di significato. Per Cassirer, tutte le grandi creazioni dell’umanità, il linguaggio, il mito, l’arte, la religione, la scienza, non sono accessori culturali o orpelli decorativi ma sono forme fondamentali della coscienza, modalità strutturali attraverso cui interpretiamo l’esperienza e ci orientiamo nella realtà. Non esiste, per l’essere umano, una realtà “neutra” perché esiste solo una realtà simbolicamente mediata. Vediamo ciò che possiamo nominare, percepiamo ciò che possiamo raffigurare, comprendiamo ciò che possiamo narrare.

In altre parole, non abitiamo il mondo direttamente ma abitiamo forme di significato che plasmano il mondo per noi.

In quest’ottica, esprimersi non è un’attività decorativa: è un atto ontologico, che fonda l’esistenza di “qualcosa”. Quando “creiamo” qualcosa stiamo creando senso e stiamo organizzando il caos. Cioè, stiamo offrendo all’anima un luogo abitabile in cui l’esperienza, anziché restare muta e opprimente, può essere trasformata, narrata, integrata.

Questo è il cuore della forza simbolica dell’espressione: trasformare ciò che accade in ciò che può essere raccontato. 

In questo senso, ogni gesto creativo, anche umile e privato, ha qualcosa di sacro perché ritorniamo ad essere soggetti attivi della nostra esperienza,  ritroviamo una voce, una prospettiva, una narrazione. E così possiamo iniziare a non subire la vita, a partecipare con un linguaggio nostro. Ed ecco che nella società contemporanea, in cui le narrazioni vengono spesso imposte, prefabbricate, standardizzate, creare è anche un atto di libertà. Esprimersi non dovrebbe essere un privilegio riservato a chi si ritiene artista ma un diritto umano insostituibile; è un modo di essere al mondo e una modalità di relazione, di cura, di sopravvivenza.

Non serve essere artiste/i, serve essere vive/i, e vivere, per l’essere umano, significa creare, dare formacostruire significato là dove prima c’era solo materia grezza.

Oggi, in un’epoca ipertecnologica e iperproduttiva, questo legame originario tra espressione e sopravvivenza rischia di rompersi. Anche perché viviamo immersi in una cultura che valuta ogni gesto in base alla sua utilità, alla sua performance, alla sua capacità di essere venduto. La creatività, se non è “redditizia”, viene ridotta a hobby e gran parte dell’espressività, se non è tecnicamente raffinata, viene zittita.

Questo clima genera una forma insidiosa di autocensura espressiva.

Non osiamo più creare se non ci sentiamo all’altezza.
Non danziamo se non sappiamo farlo bene.
Non scriviamo se non pensiamo di poter pubblicare.
Non creiamo se non siamo sicuri di piacere.

Che gran tradimento all’umano!

Come ci ricorda Dissanayake, la funzione espressiva non nasce per essere valutata ma dovrebbe emergere per connetterci, per guarirci e  per dare senso. E se perdiamo il senso espressivo della nostra vita, siamo magari sì funzionanti ma diventiamo disabitati, cioè efficienti ma vuoti; produttivi ma muti.

È tempo di riprenderci la voce e di ritrovare il gesto per riconoscere che creare non è un’aggiunta alla vita, ma il modo stesso di viverla pienamente.

Si può tornare alla sorgente: ogni atto creativo autentico è un ritorno. Non all’indietro, ma in profondità.

Esprimersi è vivere. Creare è vivere.

E vivere, pienamente, è sempre un atto creativo.