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“Essere significa essere delimitati.”
Il confine: molto più di una linea
Nel nostro immaginario, la parola “confine” ci porta immediatamente ad una linea netta, tracciata per dividere: tra una nazione e un’altra, tra un dentro e un fuori, tra un io e un tu.
Il confine sembra allora appartenere al dominio della geografia, della politica, dell’identità rigida. Ma questa visione è solo una parte del suo significato, forse la meno feconda. Ancora prima di essere una linea tracciata nello spazio il confine è una configurazione interna dell’esperienza, un principio archetipico che modella il nostro modo di abitare il mondo e di abitare noi stesse/i.
In termini archetipici, il confine non è solo ciò che delimita, ma ciò che rende possibile la forma. Senza confine non c’è figura, senza margine non c’è immagine, senza soglia non esiste passaggio. Il confine è ciò che permette al molteplice di organizzarsi in senso, al caos di generare ordine, alla possibilità di farsi concretezza. È, potremmo dire, la grammatica dell’essere.
In questo senso, ogni essere umano è strutturalmente un essere di confine.
Viviamo costantemente “tra”: tra corpo e parola, tra istinto e cultura, tra solitudine e appartenenza, tra desiderio e responsabilità. Il confine non è, allora, un’immobilità imposta, ma un luogo di tensione vitale, una zona attraversata da domande.
Dove finisco io? Dove inizia l’altra/o? Cosa posso lasciar entrare? Cosa è necessario trattenere?
Pensatori come Merleau-Ponty hanno sottolineato come la nostra percezione del mondo sia sempre incarnata, situata, attraversata da confini mobili. Non siamo mai interamente dentro né completamente fuori: siamo corpi-soglia, esposti, sensibili, aperti.
Il confine è dunque ciò che ci fa da pelle psichica: ci contiene, ma non ci chiude. È permeabile, reattivo, trasformabile. E questa sua natura porosa è ciò che permette l’incontro, la relazione, la contaminazione.
Un confine è una promessa, non una minaccia, potremmo dire.
Una promessa di trasformazione, perché ogni volta che tocchiamo un limite autentico, si apre anche un varco di possibilità.
Per questo motivo, il confine è anche uno dei luoghi più potenti della nostra creatività. Non si crea nel vuoto assoluto, né in un territorio già completamente noto. Si crea sulla soglia: là dove l’identità si incrina, dove la certezza vacilla, dove una ferita può diventare feritoia.
La psicanalista e filosofa femminista Luce Irigaray ci avverte che l’identità si costituisce solo nello spazio della differenza, solo quando viene sfidata dalla presenza dell’altro individuo. Ma perché questo avvenga, è necessario che il soggetto riconosca e onori i propri confini, senza arroccarsi in essi.
Il confine non è negazione dell’altro, ma possibilità di relazione.
In altre parole: se il confine viene vissuto come una muraglia, blocca; se viene vissuto come una soglia, genera. In quel passaggio fragile tra stabilità e apertura, tra radicamento e rischio, si manifesta la tensione più profonda dell’umano.
Ed è proprio in quella tensione che la creatività trova la sua origine.
Creare, infatti, è spesso un modo per esplorare le nostre soglie interiori. Per avvicinarci, senza invadere. Per espanderci, senza dissolverci. Per superare ciò che pensavamo definitivo, riconoscendo che ogni forma può essere riaperta, riformulata, rinegoziata.
Scopriamo lo spazio della trasformazione quando impariamo ad abitare i nostri confini, senza rinnegarli né sacralizzarli.
La creatività non è un’illuminazione improvvisa, né una forma di evasione estemporanea: è una pratica di confine, un esercizio profondo di attraversamento consapevole.
Antropologia del confine: riti di passaggio e trasformazione
Spesso gli esseri umani hanno elaborato pratiche simboliche per marcare i momenti di passaggio: dalla nascita alla pubertà, dal nubilato/celibato al matrimonio, dalla vita alla morte. Questi passaggi non sono considerati solo eventi biologici o sociali, ma vere e proprie trasformazioni ontologiche, passaggi d’essere, che richiedono riti e simboli per essere attraversati in modo significativo.
Nel testo Les rites de passage l’antropologo Arnold Van Gennep ha inserito queste pratiche in una struttura tripartita: séparation, marge (liminalité), agrégation, cioè separazione, liminalità, reintegrazione.
L’idea è che in ogni passaggio rilevante della vita, il soggetto viene prima separato dallo stato precedente, poi attraversa una fase liminale (di sospensione, ambiguità, disordine) e alla fine viene reintegrato in una nuova forma, con una nuova identità e un nuovo status.
Quella liminale è sicuramente la fase più incerta e complessa ma, allo stesso tempo, più feconda. Come approfondirà successivamente Victor Turner, la liminalità è una soglia esistenziale, uno stato intermedio in cui i vecchi riferimenti vengono sospesi e le nuove configurazioni non sono ancora stabilite. In quel momento, l’identità si disgrega: il soggetto non è né “qui” né “là”, né in “questo” né in “quello”, si trova in uno spazio-tempo in cui le categorie si indeboliscono e l’essere è costretto a ritrovare significati.
Quando la liminalità non è vissuta in solitudine ma in gruppo, Turner parla di communitas: uno stato di fratellanza orizzontale, anti-gerarchico, in cui emergono forme di coesione profonde, proprio perché si è tutti fuori dagli ordini stabiliti. Ma anche in solitudine, la liminalità è uno stato potente, misterico, rischioso.
La liminalità è una zona di potenziale trasformazione totale.
E se trasliamo questa dinamica nel campo della creatività, la corrispondenza è sorprendente.
Ogni vero processo creativo attraversa infatti una fase liminale.
Nel momento in cui ci accingiamo a creare, un testo, un gesto, un’opera, una decisione trasformativa, lasciamo qualcosa di noto: un’identità, un ruolo, un sapere, un’abitudine. Entriamo in una zona informe, in cui non siamo più ciò che eravamo, ma non sappiamo ancora chi o cosa diventeremo. È uno stato vulnerabile, disorientante, ma anche infinitamente fertile.
La creazione, in questo senso, non è una produzione tecnica. È un rito di passaggio. Un atto iniziatico.
È un lasciar morire qualcosa in sé, l’ego, il controllo, l’idea preconfezionata, per far emergere qualcosa di nuovo, che ancora non ha nome.
Scrivere, dipingere, ricamare, modellare, disegnare: ogni gesto creativo è una sospensione del mondo ordinario, una discesa nelle profondità sconosciute, un momento in cui si lascia andare all’onniscienza per aprirsi alla metamorfosi.
Potremmo dire che il fare creativo autentico coincide con la marginalità rituale: ci pone ai margini di ciò che è già codificato, e ci espone al rischio del nuovo. Ma è proprio questo rischio a renderlo trasformativo. L’identità, in quell’atto, viene destrutturata: si apre, si incrina, si riconfigura.
Ecco perché la liminalità è centrale nel pensiero antropologico e decisiva nell’esperienza creativa: essa non produce risultati certi, ma suscita possibilità inedite. Quella soglia è lo spazio dove l’io può diventare altro da sé, senza perdersi ma neanche rimanendo identico.
In questa logica, il confine non è il punto finale di un’identità, ma un nuovo punto di partenza, il terreno in cui si rinnova. Ogni soglia attraversata in modo consapevole e creativo è un atto di rinascita simbolica.
Ed è qui che la creatività si rivela nella sua potenza più radicale: non come abilità decorativa, non come talento individuale, ma come esperienza liminale capace di disgregare e ricostruire, di destrutturare e rigenerare.
Un viaggio iniziatico che non può essere compiuto se non si è disposti a sospendere il conosciuto e a stare, almeno per un po’, nella zona sacra della soglia.
Il confine personale, protezione o prigione?
Anche in psicologia dello sviluppo, il tema del confine è centrale fin dalla prima infanzia. Si può pensare allo spazio transizionale di cui parla Donald Winnicott: una zona intermedia tra mondo interno ed esterno, in cui il bambino può iniziare a creare e a esprimersi senza essere travolto dalla realtà o schiacciato dai desideri. Questo spazio è la culla della creatività.
E poi, la teoria dell’attaccamento di John Bowlby ci mostra come il senso di sicurezza interiore, la fiducia di poter esplorare il mondo, dipenda dalla presenza di confini chiari ma accoglienti. Il confine personale, quindi, nasce da una relazione; è il frutto di un equilibrio tra contenimento e libertà.
Ma quando il confine si irrigidisce, quando si costruisce a partire dalla paura, non dalla fiducia, può diventare una prigione invisibile. In quella prigione smettiamo di esplorare, di esprimerci, di evolverci. La creatività, in questi casi, si inaridisce: non perché non abbiamo talento, ma perché non abbiamo spazio.
Molte persone che si definiscono “bloccate” nel creare, incapaci di scrivere, danzare, inventare, giocare, non mancano di immaginazione o talento. Spesso mancano di spazio interno sicuro. La mente è diventata troppo sorvegliante o censurante, il corpo troppo contratto, l’identità controllata.
Non ci si concede più di attraversare i confini interiori.
Si teme l’errore, il giudizio, l’imperfezione.
Si smette di rischiare, e con ciò, si smette di creare.
Eppure, come ci ricorda ancora Winnicott, è proprio nello spazio intermedio, né interamente interno né completamente esterno, che possiamo “essere reali”. Questo spazio, se ben custodito, è la matrice del pensiero creativo, dell’invenzione, del linguaggio simbolico, della spiritualità.
Un confine personale sano non è mai un muro.
È una soglia abitata, una pelle viva, che sente, respira, si adatta.
Ci permette di entrare in contatto senza perdere il centro.
La creatività ha bisogno di questo tipo di confine.
Ha bisogno di protezione, ma anche di apertura.
Ha bisogno di silenzio, ma anche di ascolto.
Ha bisogno di una struttura che sostenga, non che soffochi.
L’evoluzione personale, e potremmo dire, anche ogni percorso artistico, passa dal riconoscere i propri confini, ascoltarli, riscriverli, permettere loro di trasformarsi da prigione in spazio generativo.
Il confine come apertura
Pensare il confine come apertura significa compiere un gesto potente sia sul piano personale sia su quello culturale. Significa rovesciare una narrazione pericolosa e pervasiva, quella che ci invita a blindarci, a difenderci, a diventare fortezze identitarie inespugnabili.
Perché è facile confondere l’identità con la chiusura: per sapere chi sei, ci viene detto, devi sapere chi non sei, cosa escludi, cosa tieni fuori.
Ma questa logica binaria produce irrigidimento, separazione, polarizzazione. E, nel quotidiano, produce anche solitudine. Invece, la creatività ha una natura meticcia, imprevedibile e relazionale e ci insegna un’altra via: l’arte dell’ospitalità interiore.
Aprire i propri confini non significa smettere di essere sé stesse/i. No, significa smettere di vivere nella paura della contaminazione e iniziare a concepire l’identità non come un’essenza da preservare, ma un processo in divenire.
Forte è l’espressione di Edouard Glissant che nella sua Poetica della relazione ci definisce esseri-arcipelago, cioè costituiti da stratificazioni, influenze, memorie e passaggi.
L’io non è un monolite, ma un nodo di relazioni, un essere-in-dialogo e in questo dialogo, ogni volta che ci apriamo, non perdiamo qualcosa, ci moltiplichiamo.
Nella filosofia di Gaston Bachelard troviamo una visione poetica del confine; il suo libro La poetica dello spazio ci guida attraverso la simbologia degli ambienti intimi: la casa, l’armadio, il nido, la conchiglia. Ogni spazio abitato certo è delimitato; ha pareti, porte, soglie, ma è proprio grazie a questi “confini” che può essere, appunto, abitato.
Una stanza senza finestre è una prigione. Un confine senza spiragli è una clausura. Ma una soglia attraversabile è un invito a trasformarsi.
Lo spazio amato è sempre uno spazio che ci lascia passare, potremmo dire con Bachelard. Non ci rinchiude, ma ci protegge nel movimento; ci contiene nell’evoluzione.
Creare da una soglia
Abbiamo detto che ogni gesto creativo autentico nasce da un luogo preciso: la soglia.
Non è dal caos totale che nasce l’arte, né dal controllo assoluto. La creatività vive nell’intervallo, in quella zona fluida in cui l’ordine si allenta e il disordine non ha ancora vinto. È una condizione dell’anima in cui ci si concede di non sapere, di stare nel forse, nel non ancora.
La soglia è quella condizione feconda in cui non siamo più chi eravamo, ma non sappiamo ancora chi saremo: non sono ancora questo, ma potrei esserlo.
Il filosofo Ernst Bloch parlava del “non-ancora” come dell’orizzonte dell’umano perché è ciò che ci muove, che ci trascina oltre lo stato attuale, che ci fa sognare e ci dà la speranza del futuro.
E la creatività è proprio questo: una pratica del non-ancora, un allenamento alla possibilità e ciò che permette questo allenamento non è un’identità fissata, ma un’identità aperta alla trasformazione.
Abitare una soglia significa diventare capaci di ascolto, di sospensione, di attenzione radicale. Significa sostare, anche quando si vorrebbe fuggire.
Significa imparare a resistere al bisogno di definire tutto subito, e lasciare che qualcosa emerga.
Perché ogni trasformazione autentica accade su una soglia.
Ogni nascita, ogni decisione importante, ogni gesto creativo è un attraversamento.
E se non si crea mai davvero dal nulla, perché il nulla non esiste, allora si crea sempre da un confine: da un margine che vibra, da una crepa che si apre, da una frontiera che ci chiama.
Forse è proprio lì, su quella linea sottile tra ciò che siamo e ciò che possiamo diventare, che la vita diventa finalmente abitabile e generativa. E vera.
